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segnalazioni 2012-05
La disuguaglianza non è stata la risposta: è stata la nostra rovina
La disuguaglianza non è stata una soluzione: infatti, è stata la nostra rovina di Heather Stewart, guardian.co.uk sabato 26 maggio 2012 ![]() Indignados in dimostrazione contro la disuguaglianza ed il sistema globale finanziario in Spagna Fotografia: Javier Lizon/EPA Il crescente divario tra ricchi e poveri doveva essere il giusto prezzo da pagare in cambio della stabilità economica. In realtà ha portato debiti che potrebbero arrestare la crescita per anni. La settimana scorsa al Forum OCSE a Parigi - una riunione dei grandi del mondo dell'economia e della politica pubblica - la maggior parte dell'attenzione era sul dramma che si stava svolgendo a Bruxelles, dove i leader europei, riuniti a cena, non sono riusciti, ancora una volta , a risolvere la crisi del debito. Ma oltre al tentativo di indovinare la prossima mossa di Angela Merkel, c'era un argomento politico scottante che è emerso ripetutamente a Parigi: la disuguaglianza. I manifestanti di Occupy sono stati costretti a spostare la loro eterogenea collezione di tende dall'esterno di St.Paul, ma la loro tesi che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in un capitalismo che permette al "99%" di cadere così in basso ha colpito un nervo scoperto. Il voto contro l'austerità nelle elezioni greche all'inizio di questo mese, e la assertività crescente di gruppi di protesta come gli indignados in Spagna, ha rivelato i limiti politici di un approccio economico che comporta punire le persone di basso reddito per i peccati delle élite. Nella sintesi delle loro discussioni, i ministri dell'OCSE promettono di "combattere le diseguaglianze crescenti con approcci che 'rendano redditizio il lavoro' , con il sostegno alle famiglie a basso reddito, con l'inclusione finanziaria, così come con investimenti per le persone e i posti di lavoro". Ci possono essere pochi risultati concreti, ma sta diventando sempre più di moda riconoscere che la disuguaglianza è un problema economico a sé stante, oltre che una questione di giustizia sociale. Per lungo tempo, il crescente divario tra ricchi e poveri è stato guardato con apprensione dalle sinistre, ma è stato ignorato o sottovalutato da molti economisti - e dal consenso politico - come uno sfortunato ma inevitabile effetto collaterale della lotta all'inflazione, e, successivamente, del cambiamento tecnologico e della globalizzazione. Un eccellente nuovo articolo (presentato a Parigi, ma ancora inedito) di James Galbraith, figlio economista del famoso padre economista, aiuta a spiegare come siamo arrivati a questo punto. L'autore sostiene che è fondamentale capire come l'Occidente, e gli economisti, hanno risposto agli shock petroliferi degli anni '70. Invece di usare politiche industriali o di occupazione per distribuire il costo e sacrificio del riadattamento, o ristrutturare l'economia per far fronte al maggior costo dell'energia, il mondo ricco trattato la crisi come puramente uno "shock dei prezzi" - un problema di inflazione. La risposta è stata a far decollare i tassi di interesse, spezzare il potere contrattuale dei sindacati, e tollerare i livelli di disoccupazione che una volta sarebbero stati considerati inaccettabili, in nome della causa di uccidere la bestia di inflazione. Da quando poi Margaret Thatcher prese le redini in Gran Bretagna e Ronald Reagan negli Stati Uniti, questo mantra per esorcizzare l' inflazione si è intrecciato con il pernicioso mito che liberalizzare i mercati finanziari e permettere al punto di vista del mercato di penetrare nuovi ambiti della vita porterebbe a un mondo migliore e più sicuro. Il risultato è stato un'economia in cui il 99% è stato lasciato molto indietro: la disuguaglianza è ascesa vertiginosamente dal 1980 su entrambi i lati dell'Atlantico. Più tardi, la storia ha visto [da un lato] la crescente importanza dell' "economia senza peso" hi-tech e [dall'altro] la esternalizzazione e delocalizzazione della produzione metallurgica tradizionale verso economie a basso costo di manodopera come la Cina, [questo] ha polarizzato [la distribuzione del] reddito tra gli altamente qualificati e ben pagati "lavoratori della conoscenza" e i poco qualificati schiavi salariati che improvvisamente hanno dovuto competere con i sotto-pagati lavoratori delle fabbriche cinesi e indiane. Tutto questo è stato molto triste per i perdenti in questa nuova economia dove il vincitore prende tutto, ma il premio doveva essere la "Grande Moderazione": un lungo periodo di consistente e costante crescita e bassa inflazione in gran parte del mondo ricco. Purtroppo, la Grande Moderazione ora sembra essere stato, col senno di poi, la Breve Tregua dal tumulto economico, guidato da fattori a breve termine, come l'ingresso della Cina nell'economia mondiale e da un enorme boom del credito al consumo. Nel frattempo, sotto il livello delle statistiche economiche più aggregate, la crescente disuguaglianza stava avendo effetti perniciosi per conto suo. Un recente studio pubblicato dal "National Institute of Economic and Social Research" [Istituto Nazionale di Ricerche Economiche e Sociali] (NIESR) per il think-tank della Resolution Foundation dimostra che famiglie a basso reddito nel Regno Unito hanno mantenuto il loro tenore di vita tra la fine del 1990 e gli inizi del 2000 solamente ricorrendo pesantemente al debito. C'è un opinione diffusa, sostenuta tra gli altri da Ben Broadbent della Banca d'Inghilterra, che nel Regno Unito i livelli senza precedenti di indebitamento delle famiglie non abbiano rilevanza nel contrastare il recupero, perché sono stati accompagnati da un forte aumento in ricchezze patrimoniali. Questo sembra corretto se si pensa a proprietari di casa che confrontano i propri mutui in crescita con i prezzi delle case in aumento. Ma NIESR ha scoperto che, in realtà, erano di gran lunga i poveri ad indebitarsi in questo periodo, mentre i ricchi stavano accumulando ricchezze. Nei dieci anni precedenti al 2007, per esempio, la parte inferiore del 10% delle famiglie ha visto il proprio reddito crescere del 17%, ma il loro aumento di spesa è stato del 43%. Come NIESR dice: "Dato che solo una minoranza dei più poveri sono proprietari di abitazione su cui pagano il mutuo, è altamente improbabile che questo [loro indebitamento sia] controbilanciato da un aumento di ricchezza immobiliare". Senza questo indebitamento selvaggio, è probabile che il consumo sarebbe crollato, e con esso la crescita. E poiché molte famiglie povere sono oggi ostacolate da debiti impagabili, la domanda potrebbe rimanere bassa per anni. Quindi sembra che la crescente disuguaglianza abbia rilevanza - economica, oltre che politica. Ed è questa storia - di decenni in cui i premi sontuosi maturati a pochi, mentre tutti gli altri mettevano pezze di carta sopra le crepe con il debito personale - che potrebbe rendere l'austerità impossibile da sopportare. Come dice Galbraith, "lo sconvolgimento sociale è una possibilità", perché "coloro che spingono affinché i costi ricadano principalmente sulla popolazione a basso e medio reddito, attraverso tagli in pensioni, cure mediche, istruzione e infrastrutture pubbliche, devono rendersi conto che le persone colpite faranno la prossima mossa ". |
Crisi sociale e salute (3)
il terzo di una serie di Post e specificatamente dedicato alle relazioni tra crisi, disuguaglianze e salute apparso il 27 maggio 2012 nel blog Salute per tutti di Gavino Maciocco su ComUnità, la community de l'Unità L’Italia fa parte con Usa e Regno Unito del gruppo di paesi sviluppati che presentano gli indici più elevati di disuguaglianza economica. Nel 2008 la quota di reddito percepita dal 10 per cento delle famiglie con redditi più elevati equivaleva a 10,5 volte la quota delle famiglie con il reddito più basso. Alle prime è andato il 26,3 per cento del reddito totale delle famiglie italiane; alle seconde, il 2,5 per cento. La distribuzione della ricchezza è ancora più diseguale: il decimo più ricco delle famiglie italiane detiene il 44 per cento della ricchezza totale (vedi qui). La crisi ha dilatato le diseguaglianze socio-economiche e con queste si sono allargate le diseguaglianze nella salute. ![]() I gruppi di popolazione con redditi più bassi e con titoli di studio inferiori hanno una minore longevità, una maggiore probabilità di ammalarsi di una o più malattie croniche e di morire precocemente a causa di queste. A Torino il gruppo di popolazione col reddito più basso ha una vita media di quasi sei anni più bassa rispetto al gruppo col reddito più alto: ovvero la vita media dei più ricchi è 80 anni e dei più poveri 74 (Figura 1). Figura 1. Differenze nella speranza di vita alla nascita dei maschi a Torino per decile di reddito. Anni 2000-2005. Fonte: G. Costa A Firenze le persone con basso titolo di studio hanno il 79% di probabilità in più di morire di infarto prima di 74 anni rispetto alle persone laureate: ovvero prima dei 74 anni in proporzione muoiono per infarto 100 persone laureate e 179 persone con basso titolo di studio (Figura 2).Figura 2. Probabilità di morire per infarto (RR) prima di 74 anni, per livello d’istruzione. Firenze, 2001-2005. Fonte: Studio Longitudinale Toscano. Il primo di questi è il lavoro. Il lavoro che non c’è. Il lavoro precario e insicuro. Il lavoro ripetitivo, subordinato, privo di autonomia e di possibilità di controllo. Il lavoro senza gratificazioni, sfruttato, mal remunerato. Tali condizioni espongono le persone al rischio dello “stress cronico”, una condizione dannosa per la salute perché favorisce l’insorgenza dell’ipertensione arteriosa e altera le difese immunitarie, e perché predispone a stili di vita nocivi (fumo, alcol, sedentarietà, etc). Poi c’è il lavoro come causa diretta di danni alla salute, vedi infortuni e malattie professionali. Il secondo (ma l’elenco potrebbe continuare) è la conoscenza ( e le “conoscenze”). Le persone con basso livello d’istruzione e basso reddito (specie se anziane) hanno minori informazioni sulla salute e si curano meno delle loro condizioni fisiche; hanno anche minore conoscenza del sistema sanitario, delle modalità di accesso, della qualità dei servizi offerti e hanno minori “conoscenze” per riuscire a “entrare” nel sistema e ottenere il meglio che questo può dare. Secondo un’indagine nazionale dell’Istat soffrono di una patologia cronica grave (tra cui malattie cardiovascolari, tumori, diabete, malattie respiratorie) l’8,2% delle persone con laurea o diploma e il 32,5% di quanti hanno al massimo la licenza elementare. Nell’insorgenza e nell'aggravamento di gran parte delle malattie croniche gli stili di vita giocano un ruolo decisivo. Anche qui la diffusione degli stili di vita nocivi si distribuisce nella popolazione rigorosamente sulla base della classe sociale. Prendiamo ad esempio la sedentarietà (utilizzando le informazioni tratte dal Rapporto Nazionale Passi). ![]() ![]() Figura 3. Distribuzione della sedentarietà per età, sesso, livello d'istruzione e condizione economica. Fonte: Rapporto Nazionale Passi, 2010. Le stesse stratificazioni sociali le troviamo nella diffusione del sovrappeso/obesità e dell’abitudine al fumo. E’ ben vero che i comportamenti dipendono dalla volontà delle persone, ma ritenere che l’aderenza a un determinato stile di vita sia nient’altro che il frutto della libera e consapevole scelta dell’individuo è la banale semplificazione di un problema molto complesso. A testimoniare la complessità della questione sta la constatazione che i comportamenti nocivi per la salute si concentrano nelle fasce meno favorite della popolazione e che queste fasce sono le più colpite da malattie croniche. Non è semplice promuovere stili di vita salutari e ancor più difficile cercare di modificare i comportamenti francamente insalubri. Infatti, agli elementi soggettivi che inducono le persone a seguire stili di vita nocivi (vedi la condizione di stress cronico) si aggiungono i fattori di mercato che condizionano le scelte delle persone: la pubblicità, la moda e anche banali e spesso decisivi calcoli economici (es: i cibi ad alto contenuto calorico e a basso contenuto nutritivo sono in generale a più basso prezzo). |
Banche Italia: Uilca, nel 2011 crescita a due cifre per gli stipendi dei ceo
Finanzaonline.com - 24.5.12/16:51 In forte crescita i compensi dei top manager delle principali banche italiane. Uno studio realizzato dall'Ufficio Studi dell'Uilca evidenzia come nel 2011 sia continuata la crescita dei compensi del top management bancario italiano "malgrado i costanti richiami alle aziende ad adottare politiche di moderazione ed equità e una crisi sempre più aggressiva, che ha prodotto aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze sociali". Lo studio della Uilca evidenzia un aumento delle retribuzioni dei Ceo del 36,23% rispetto all´anno precedente, per un totale di 26,067 milioni, rispetto ai 19,135 milioni inerenti il 2010. Il compenso medio dei Ceo risulta quindi di 85 volte superiore a quello dei lavoratori. L'analisi è relativa ai compensi relativi al 2011 dei Chief Executive Officer (Ceo - Amministratori Delegati o Direttori Generali) e dei presidenti di 11 tra i principali Gruppi bancari italiani (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banca Monte Paschi di Siena, Banco Popolare, Ubi, Banca Popolare di Milano, Banca Popolare dell´Emilia Romagna, Banca Popolare di Sondrio, Banco di Desio e della Brianza, Banca Carige, Banca Popolare di Spoleto). Fonte: Finanza.com |
Da ISTAT Rapporto annuale 2012 - Crescita e disuguaglianze
dal Capitolo 4 Disuguaglianze, equità e servizi ai cittadini estratto dal Focus per la stampa su Crescita e disuguaglianze e Condizioni di vita e opportunità
Condizioni di vita e opportunità
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